domenica 28 giugno 2015

Alcune questioni sulla filosofia dell'hitlerismo / Emmanuel Levinas

(prefazione dell'autore del 1990)

Questo articolo è apparso in "Esprit", rivista del cattolicesimo progressista d'avanguardia, nel 1934, pressappoco all'indomani dell'arrivo di Hitler al potere.

L'articolo procede dalla convinzione che l'origine della sanguinosa barbarie del nazionalsocialismo non sia in una qualche contingente anomalia della ragione umana, né in un qualche malinteso ideologico accidentale. In quest'articolo c'è la convinzione che tale origine attenga ad una possibilità essenziale del Male elemantale (Mal élémental) cui ogni buona logica può condurre e nei cui confronti la filosofia occidentale non si era abbastanza assicurata. Possibilità che s'inscrive nell'ontologia dell'essere che ha cura d'essere - dell'essere "dem es in seinem Sein um dieses Sein selbst geht", secondo l'esressione heideggeriana. Possibilità che minaccia ancora il soggetto correlativo all'esser-da-radunare e da-dominare (l'être-à-rassembler et à-dominer), questo famoso soggetto dell'idealismo trascendentale che innanzitutto si vuole e si crede libero. Dobbiamo chiederci se il liberalismo possa bastare alla dignità autentica del soggetto umano. Il soggetto raggiunge la condizione umana prima di assumere la responsabilità per l'altro uomo nell'elezione che lo eleva a questo grado? Elezione proveniente da un dio - o da Dio - che lo guarda nel volto dell'altro uomo, suo prossimo, "luogo" originale della Rivelazione.

E. L.

(testo)

La filosofia di Hitler è rudimentale. Ma le potenze primordiali che vi si consumano fanno esplodere la fraseologia miserabile sotto la spinta di una forza elementare. Destano la nostalgia segreta dell'animo tedesco. Ben più che un contagio o una follia, l'hitlerismo è un risveglio di sentimenti elementari.

Ma allora, spaventosamente pericoloso, diventa filosoficamente interessante. Perché i sentimenti elementari racchiudono una filosofia; esprimono la prima attitudine di un animo di fronte all'insieme del reale e al suo destino. Predeterminano o prefigurano il senso della sua avventura nel mondo.

Così la filosofia dell'hitlerismo va ben oltre la filosofia degli hitleriani. Pone in questione  i principî stessi di una civiltà. Il conflitto non si gioca solamente tra il liberalismo e l'hitlerismo. Il cristianesimo stesso è minacciato, malgrado le precauzioni o Concordati di cui si avvalgono le Chiese cristiane all'avvento del regime.

Ma non basta distinguere, come certi giornalisti, l'universalismo cristiano dal settarismo razzista: una contraddizione logica non potrebbe giudicare un avvenimento concreto. Il significato di una contraddizione logica che oppone due correnti di idee non appare pienamente se non la si riconduce alla fonte, all'intuizione, alla decisione originale che le rende possibili. È in questo spirito che esporremo qui alcune riflessioni.

1.

Le libertà politiche non esauriscono il contenuto dello spirito di libertà che, per la civiltà europea, significa una concezione del destino umano. È un sentimento della libertà incondizionata dell'uomo di fronte al mondo e alle possibilità che sollecitano la sua azione. L'umo si rinnova eternamente dinanzi all'Universo. Parlando in termini assoluti, non ha storia.

Perché la storia è la limitazione più profonda, la limitazione fondamentale. Il tempo, condizione dell'esistenza umana, è soprattutto condizione dell'irreparabile. Il fatto compiuto, travolto da un presente che fu, sfugge per sempre alla presa dell'uomo, ma grava sul suo destino. Dietro alla malinconia per l'eterno fluire delle cose, per l'illusorio presente di Eraclito, c'è la tragedia dell'inamovibilità di un passato incancellabile che condanna l'iniziativa a non essere che una continuazione. La vera libertà, il vero inizio, esigerebbero un vero presente che, sempre al culmine d'un destino, lo ricominciasse eternamente.

L'ebraismo apporta questo messaggio magnifico. Il rimorso - espressione dolorosa dell'impotenza radicale di riparare l'irreparabile - annuncia il pentimento generatore del perdono che redime. L'uomo scopre nel presente ciò che trasforma e fa dileguare il passato. Il tempo perde la sua stessa irreversibilità. Si piega sfinito ai piedi dell'uomo come una bestia  ferita. Ed egli lo libera.

Il sentimento bruciante dell naturale impotenza dell'uomo nei confronti del tempo costituisce tutta la tragicità della Moira greca, tutta l'acuità dell'idea di peccato e tutta la grandezza della rivolta del Cristianesimo. Agli Atridi, che si dibattono soffocati da un passato estraneo e brutale come una maledizione, il Cristianesimo oppone un dramma mistico. La Croce affranca; e attraverso l'Eucarestia, che trionfa sul tempo, questa liberazione diventa quotidiana. La salvezza che il Cristianesimo vuole portare vale come promessa di ricominciare il definitivo he si compie nel trascorrere degli istanti, di superare la contraddizione assoluta di un passato subordinato al presente, di un passato sempre in causa, sempre rimesso in questione.

In questo modo esso proclama la libertà, la rende possibile in tutta la sua pienezza. Non solo la scelta del destino è libera. La scelta compiuta non diventa un vincolo. L'uomo conserva la possibilità - soprannaturale certo, ma alla sua portata e concreta - di sciogliere il contratto nel quale si è liberamente impegnato. Egli può riacquistare in ogni istante la nudità dei primi giorni della creazione. La riconquista non è facile. Può fallire. Non è l'effetto del decreto capriccioso di una volontà collocata in un mondo arbitrario. Ma l'enormità dello sforzo richiesto equivale alla serietà dell'ostacolo, e sottolinea l'originalità del nuovo ordine promesso e realizzato che trionfa aprendo uno squarcio negli strati profondi dell'esistenza naturale.

Questa libertà infinita rispetto a  qualsiasi legame, per la quale, insomma, nessun legame sarà definitivo, è alla base della nozione cristiana dell'anima. Pur restando una realtà sommamente concreta, che esprime il fondamento ultimo dell'individuo, ha l'austera purezza di un anelito trascendente. Attraverso le vicissitudini della storia reale del mondo, il potere di rinnovamento dona all'anima come una natura noumenica, al riparo dagli attacchi di un mondo in cui l'uomo concreto è tuttavia installato. Il paradosso non è che apparente. Il distacco dell'anima non è un'astrazione, ma un potere reale e positivo di separarsi, di astrarsi. L'uguale dignità di tutte le anime, indipendentemente dalla condizione materiale o sociale delle persone, non deriva da una teoria che affermi, sotto le differenze individuali, una somiglianza della "costituzione psicologica". È dovuta al potere dato all'anima di liberarsi da ciò che è stato, da tutto ciò che l'ha coinvolta, da tutto ciò che l'ha impegnata - per ritrovare la sua prima verginità.

Se il liberalismo degli ultimi secoli evita l'aspetto drammatico di questa liberazione, ne conserva un elemento essenziale sotto forma di libertà sovrana della ragione. Tutto il pensiero filosofico e politico dei tempi moderni tende ad elevare lo spirito umano a un livello superiore alla realtà, scava un abisso tra l'uomo e il mondo. Rendendo impossibile l'applicazione delle categorie del mondo fisico alla spiritualità della ragione, pone il fondamento ultimo dello spirito al di fuori del mondo brutale e della storia implacabile dell'esistenza concreta. Sostituisce, al mondo ottuso del senso comune, il mondo ricostruito dalla filosofia idealista, permeato di ragione e sottomesso alla ragione. Al posto della liberazione attraverso la grazia c'è l'autonomia, ma il leitmotiv giudeo-cristiano della libertà la compenetra.

Gli scrittori francesi del XVIII secolo, precursori dell'ideologia democratica della Dichiarazione dei diritti dell'uomo, malgrado il loro materialismo, hanno dato espressione al sentimento di una ragione che esorcizzasse la materia fisica, psicologica e sociale. La luce della ragione basta a dileguare le ombre dell'irrazionale. Che cosa resta del materialismo, quando la materia è intrisa di ragione?

L'uomo del mondo liberalista (liberaliste) non sceglie il suo destino sotto il peso di una Storia. Non conosce le sue possibilità come delle potenze inquiete che fremono in lui e lo orientano già verso un cammino determinato. Per lui vi sono soltanto possibilità logiche che si offrono ad  una ragione serena in grado di scegliere mantenendo perennemente le sue distanze.

2.

Il marxismo, per la prima volta nella storia occidentale, contesta questa concezione dell'uomo.

Lo spirito umano non gli appare più come la pura libertà, come l'anima che si libera al di sopra d'ogni vincolo: non è più la pura ragione che fa parte del regno dei fini. È in preda ai bisogni materiali. Ma, alla mercé di una materia e di una società che hanno smesso di obbedire alla bacchetta magica della ragione, la sua esistenza concreta e asservita ha più importanza, più peso di una razionalità impotente. La lotta, che preesiste all'intelligenza, gli impone decisioni che non aveva mai preso. "L'essere determina la coscienza". La scienza, la morale, l'estetica, non sono più morale, scienza, estetica in se stesse, ma esprimono in ogni istante l'opposizione fondamentale delle civiltà borghese e proletaria.

Lo spirito della concezione tradizionale perde quel potere di sciogliere tutti i legami di cui è sempre stato fiero. Si scontra con dei macigni che quella stessa concezione non riuscirà mai a scuotere. La libertà assoluta, quella che compie i miracoli, si trova bandita, per la prima volta, dalla costituzione dello spirito. Perciò il marxismo si oppone non soltanto al Cristianesimo, ma ad ogni liberalismo idealista per il quale "l'essere non determina la coscienza", ma la coscienza o la ragione determinano l'essere.

Per questo, il marxismo coglie in contropiede la cultura europea o, almeno, spezza la curva armoniosa del suo sviluppo.

3.

Tuttavia questa rottura col liberalismo non è definitiva. Il marxismo è cosciente di continuare, in un certo senso, le tradizioni del 1789, e il giacobinismo sembra ispirare in larga misura i rivoluzionari marxisti. Ma soprattutto, se l'intuizione fondamentale del marxismo consiste nell'aver colto lo spirito nell'ineludibile rapporto ad una situazione determinata, questa connessione non ha nulla di radicale. La coscienza individuale determinata dall'essere non è così impotente da non conservare - almeno in linea di principio - il suo potere di rompere l'incantesimo sociale che allora apparirà estraneo alla sua essenza. Prendere coscienza della propria situazione sociale vuol dire, per lo stesso Marx, affrancarsi dal fatalismo che essa comporta.

Una concezione veramente opposta alla nozione europea di uomo sarebbe possibile solo se la situazione a cui è inchiodato (rivé) non si aggiungesse a lui, ma costituisse il fondamento stesso del suo essere. Esigenza paradossale che l'esperienza del nostro corpo sembra realizzare.

Che cos'è secondo l'interpretazione tradizionale il fatto di avere un corpo? È sopportarlo come un oggetto del mondo esteriore. Il corpo pesa a Socrate come le catene che costringono il filosofo nella prigione di Atene; lo rinchiude come la tomba che gli è destinata. Il corpo è l'ostacolo. Spezza il libero slancio dello spirito, lo riconduce alle condizioni terrene, ma, come un ostacolo, è qualcosa da superare.

È il sentimento dell'eterna estraneità del corpo rispetto a noi che ha nutrito tanto il Cristianesimo che il liberalismo moderno Esso ha resistito a tutte le trasformazioni dell'etica, malgrado il declino subìto dall'ideale ascetico a partire dal Rinascimento. Se i materialisti confondevano l'io con il corpo, era a prezzo della negazione pura e semplice dello spirito. Essi ponevano il corpo nell'ambito della natura senza riconoscergli un rango d'eccezione nell'Universo.

Ora, il corpo non è soltanto l'eterno estraneo. L'interpretazione classica relega ad un livello inferiore e considera come una tappa da superare, quel sentimento d'identità tra il nostro corpo e noi stessi che alcune circostanze rendono particolarmente acuto. Il corpo non ci è solamente più vicino o più familiare del resto del mondo, non determina soltanto la nostra vita psicologica, il nostro umore e la nostra attività. Al di là di queste banali constatazioni, c'è il sentimento d'identità. Non ci affermiamo in questo calore unico del nostro corpo ben prima che il pieno sviluppo dell'Io pretenda di distinguersene? E non resistono forse ad ogni prova quei legami che, ben prima che si schiuda l'intelligenza, il sangue ha stabilito? In una pericolosa impresa sportiva, in un esercizio i cui gesti richiedono una perfezione quasi astratta a un soffio dalla morte, ogni dualismo tra l'io e il corpo deve scomparire. E nella situazione senza uscita della sofferenza fisica, il malato non sperimenta forse l'inscindibile semplicità del proprio essere, quando si rigira nel suo letto di dolore senza trovar pace?

Si direbbe che l'analisi riveli nel dolore l'opposizione dello spirito a questo dolore, una rivolta, un rifiuto di restarci e di conseguenza un tentativo di superarlo - ma questo tentativo non si caratterizza sempre come già disperato? Lo spirito ribelle non resta trattenuto nel dolore, ineluttabilmente? E non è questa disperazione che costituisce il fondamento stesso del dolore?

Accanto all'interpretazione data dal pensiero tradizionale d'Occidente che chiama questi fatti bruti e triviali e che li sa sminuire, può sussistere il sentimento della loro originalità irriducibile, il desiderio di custodire la loro purezza. Si darebbe nel dolore fisico una posizione assoluta.

Il corpo non è soltanto un accidente felice o infelice che ci mette in rapporto col mondo implacabile della materia - la sua aderenza all'Io vale di per se stessa. È un'aderenza alla quale non si sfugge e che nessuna metafora potrebbe far confondere con la presenza d'un oggetto esteriore: è un'unione il cui tragico sapore di definitivo nulla potrebbe alterare.

Tale sentimento d'identità tra l'io e il corpo - che, beninteso, non ha niente in comune col materialismo volgare - non permetterà dunque mai, a chi prendesse le mosse da esso, di ritrovare al fondo di questa unità la dualità di uno spirito libero che si dibatte contro il corpo a cui sarebbe stato incatenato. Per costoro, al contrario, è in questo incatenamento al corpo che consiste tutta l'essenza dello spirito. Separarlo dalle forme concrete in cui è già da sempre coinvolto significa tradire l'originalità dello stesso sentimento da cui conviene partire.

L'importanza attribuita al sentimento del corpo, di cui lo spirito occidentale non ha mai voluto accontentarsi, è alla base di una nuova concezione dell'uomo. Il biologico, con tutta la fatalità che comporta, diventa ben più che un oggetto della vita spirituale, ne diviene il cuore. La voce misteriosa del sangue, gli appelli dell'eredità e del passato di cui il corpo è l'enigmatico portatore, perdono la loro natura di problemi sottoposti alla soluzione di un Io sovranamente libero. L'Io non dispone, per risolverli, che delle incognite stesse di questi problemi. Ne è costituito. L'essenza dell'uomo non è più nella libertà, ma in una sorta di incatenamento. Essere veramente se stessi, non significa risollevarsi al di sopra delle contingenze, sempre estranee alla libertà dell'Io: ma, al contrario, prendere coscienza dell'incatenamento originale, ineluttabile, unico al nostro corpo; significa soprattutto accettare questo incatenamento.

Di conseguenza, ogni struttura sociale che annunci un affrancamento dal corpo e che non lo coinvolga diventa sospetta come un'abiura, un tradimento. Le forme della società moderna fondata sull'accordo di volontà libere non appariranno soltanto fragili e inconsistenti, ma false e menzognere. L'assimilazione degli spiriti perde la grandezza del trionfo dello spirito sul corpo. Diventa opera di falsificazione. Da questa concretizzazione dello spirito deriva immediatamente una società a base consanguinea. E allora, se la razza non esiste, bisogna inventarla!

Questo ideale dell'uomo e della società si accompagna ad un nuovo ideale di pensiero e di verità.

Ciò che caratterizza la struttura del pensiero e della verità nel mondo occidentale - l'abbiamo sottolineato - è la distanza che separa inizialmente l'uomo dal mondo delle idee in cui sceglierà la propria verità. Egli è libero e solo di fronte a questo mondo. È libero al punto che può fare a meno di ricoprire questa distanza, di effettuare la scelta. Lo scetticismo è una possibilità fondamentale dello spirito occidentale. Ma una volta annullata la distanza e colta la verità, l'uomo non fa certo a meno della sua libertà. Può riprendersi e tornare sulla propria scelta. L'affermazione cova già la futura negazione. Questa libertà costituisce tutta la dignità del pensiero, ma ne nasconde pure il pericolo. Nell'intervallo che separa l'uomo dall'idea si insinua la menzogna.

Il pensiero diventa gioco. Nella sua libertà l'uomo si compiace e non si compromette in senso definitivo con nessuna verità. Trasforma il suo potere di dubitare in mancanza di convinzione. non legarsi ad una verità diventa per lui non voler impegnare la propria persona nella creazione di valori spirituali. La sincerità divenuta impossibile mette fine ad ogni eroismo. La civilizzazione è invasa da tutto ciò che non è autentico, dai succedanei messi al servizio degli interessi e della moda.

È a una società che perde il contatto vivente dal suo vero ideale di libertà per accettarne le forme degenerate e che, senza vedere lo sforzo che questo ideale esige, si rallegra innanzitutto delle comodità che consente - è a una società in queste condizioni che l'ideale germanico dell'uomo appare come una promessa di sincerità ed autenticità. L'uomo non si trova più davanti a un mondo di idee in cui può scegliersi, con una decisione sovrana della sua libera ragione, la propria verità - egli è già legato ad alcune tra quelle, com'è legato fin dalla sua nascita a tutti coloro che sono del suo stesso sangue. Non può più giocare con l'idea, perché scaturita dal suo essere concreto, ancorata alla sua carne e al suo sangue, essa ne conserva la serietà.

Incatenato al suo corpo, l'uomo si vede rifiutare il potere di sfuggire a se stesso. La verità, per lui, non è più la contemplazione di uno spettacolo estraneo - essa consiste in un dramma di cui l'uomo stesso è l'attore. È sotto il peso di tutta la sua esistenza - che comporta dei dati su cui non si può più tornare - che l'uomo dirà il suo sì o il suo no.

Ma a cosa obbliga questa sincerità? Ogni assimilazione razionale o comunione mistica tra spiriti che non si fondi su una comunità di sangue è sospetta. E tuttavia il nuovo tipo di verità non potrebbe rinunciare alla sua natura formale e smettere di essere universale. La verità potrà ben essere la mia verità nel senso più forte di questo possessivo - essa deve però tendere alla creazione d'un mondo nuovo. Zarathustra non s'accontenta della propria trasfigurazione, scende dalla sua montagna e porta un vangelo. Ci sarà - ed è nella logica dell'ispirazione originaria del razzismo - una modificazione fondamentale dell'idea stessa di universalità. Essa dovrà far posto all'idea di espansione, perché l'espansione d'una forza presenta tutt'altra struttura dalla propagazione di un'idea.

L'idea che si propaga, si distacca essenzialmente dal suo punto di partenza. Malgrado l'accento unico che il suo creatore le conferisce, essa diventa di patrimonio comune. È sostanzialmente anonima. Appartiene a chi la accetta come a chi la propone. La diffusione di un'idea crea così una comunità di "maestri" ("maîtres") - è un processo di parificazione. Convertire o persuadere è crearsi dei pari. L'universalità d'un ordine nella società occidentale riflette sempre questa universalità della verità.

La forza è invece rappresentata da un altro tipo di propagazione. Chi la esercita non se ne separa. la forza non si disperde tra coloro che la subiscono. È tutt'uno con la personalità o la società che la esercitano, le accresce subordinando loro tutto il resto. Qui l'ordine universale non si stabilisce più come corollario dell'espansione ideologica - esso è questa espansione stessa che costituisce l'unità di un mondo di padroni (maîtres) e schiavi. La volontà di potenza nietzschiana che la Germania moderna ritrova e glorifica non è soltanto un nuovo ideale, è un ideale che apporta nello stesso tempo la sua forma propria di universalizzazione: la guerra, la conquista.

Ritroviamo qui delle verità ben note. Abbiamo tentato di ricollegarle ad un principio fondamentale. Può essere ci sia riuscito di mostrare che il razzismo non si oppone solamente a questo o a quel punto particolare della cultura cristiana e liberale. Che qui non è questo o quel dogma della democrazia, del parlamentarismo, del regime dittatoriale o della politica religiosa ad esser messo in causa. È l'umanità stessa dell'uomo.

(fine)

Versione tratta dall'edizione Quodlibet pubblicata a Macerata nel 1996. I corsivi sono nell'originale.

Raffaele Yona Ladu

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